Los Sitios de La Cocina de Pasqualino Marchese

 

Los “Aci”

Mitos y coincidencias.

La parte oriental de Sicilia, entre Messina y Catania, está salpicada de varios y sugestivos pueblos que llevan el prefijo ‘aci’. Trátase de Acitrezza, Acicastello, Acireale, Aci Bonaccorsi, Aci Sant’Antonio, Aci Catena, Aci Sanfilippo, Aci Platani, Aci Santa Lucia, todos al pie del volcán Etna y mirando el azul Mar Jónico.

El nombre Aci, del latín Acis, era un río que en edad griega corría por la zona, pero a causa de sucesivas erupciones del Etna desapareció bajo el suelo aflorando hoy casi junto al mar cerca del puerto pesquero de Acireale, Santa María La Scala. De este lugar se conformaba al comienzo una gran parte de los pescadores de la colonia del Puerto de Mar del Plata.

El río está ligado a una leyenda de donde toma el nombre: la leyenda de Aci, Galatea y Polifemo. En aquellas tierras floridas pacía su rebaño el cíclope Polifemo, una mole sucia, voraz, ser rudimentario y con un ojo solamente. Una noche el gigante descansando en la playa fue atraído por la presencia de la ninfas del agua que jugaban y reían entre el acercarse de las olitas del argénteo mar. El corazoncito del tosco Polifemo fue inmediatamente golpeado por la belleza de las doncellas y en particular por una de ella: Galatea. Y les he mostró, asustándolas, menos a Galatea que lo enfrentó amenazándolo y desviando todos los ‘dulces’ intentos para la ocasión que mostraba Polifemo, aduciendo con despecho que estaba enamorada de un hermoso joven llamado Aci. Resentido y rabioso Polifemo buscó al rubio pastor y encontrándolo lo mató súbitamente con una gruesa piedra. Galatea lloró a gritos la dolorosa muerte del amado, y los dioses para compensar y mitigar el dolor de la ninfa transformaron en aguas frescas y cristalinas al pastor y a la misma piedra que había servido para el asesinado, formándose así un río que tomó el nombre de Aci. Y parece que en el lugar se erigió un pequeño pueblo que luego de ser destruido por las erupciones del Etna, los habitantes se esparcieron formando pequeñas comunidades con el topónimo ‘aci’.

Si no fuera porque no encontré la traducción en castellano de los versos de Salvatore Quasimodo, premio Nóbel de literatura en 1959, me hubiera abstenido de la pobre explicación que he dado y  remitido directamente al poeta.

 

 

 


Galatea, Acis, Poliphemus
Libro XIII - vv. 737-897

 L'inquieta Cariddi infuria sulla riva d'occidente,
Scilla sull'opposta riva. L'una attira e divora
le navi e le ributta, l'altra cinge di cani feroci
il fosco ventre; ed ha l'aspetto di vergine:
a credere agli oracoli, forse fu vergine un tempo.
Molti chiedono invano Scilla come sposa,
e lei cara alle ninfe del mare,
a questo narra gli amori dei giovani delusi.
Un giorno Galatea, porgendole al pettine i capelli,
così parlò a Scilla fra un sospiro e l'altro:
«Almeno tu, o vergine, susciti amore fra la dura razza
degli uomini, e, come fai, senza timore
ti puoi anche negare. Ma io, figlia di Nèreo
e dell'azzurra Doride, con infinite sorelle
che mi stanno a fianco, solo con pianto
ho potuto sfuggire all'amore del Ciclope.»
Qui le lacrime le chiusero la voce.
Allora la vergine le asciugava gli occhi
col suo candido pollice e, consolandola, diceva:
«Parla, o diletta, non nascondermi il dolore
che ti tormenta: tu sai che ti sono fedele.»
E così rispondeva la ninfa alla figlia di Crateide:
«Aci, nato da Fauno e dalla ninfa del Simeto,
era la grande gioia del padre e della madre,
ma più la mia, perché solo con me s'era congiunto.
Bello, di sedici anni, una lieve lanugine
copriva le sue tenere guance. Ed io l'amavo;
ma con ardore cercava me il Ciclope.
Non dirò, se lo chiedi, che l'amore per Aci
fu più dell'odio che portavo all'altro: fu uguale.
Potente il tuo dominio, o Venere benefica!
Anche il Ciclope, terrore delle selve,
che mai ospite lasciò senza una pena,
che non cura gli dèi e il vasto Olimpo,
provò che cosa fosse amore, e, avido di me,
dimenticò il gregge e le spelonche.
E ora ti fai bello, o Polifemo, vuoi piacere,
e col rastrello pettini i ruvidi capelli,
e l'ispida barba ami tagliare con la falce,
e ti specchi nell'acqua per fare lieto il volto.
Non hai più brama di stragi, non sei più selvatico,
quieta è la sete mai sazia di sangue,
le navi arrivano e partono sicure.
Intanto Télemo, giunto sull'Etna dei Siculi
(Télemo Eurúnide, che dal volo degli uccelli
fa giusto presagio), andò dal tremendo Polifemo
e gli disse: "Quell'occhio che hai sulla fronte
ti sarà tolto da Ulisse". Rise Polifemo,
e rispose: "T'inganni, o stupido indovino;
già un'altra mi tolse l'occhio". E cosi sdegnava
chi invano prediceva il vero. E camnmnando
o affondava sul lido il passo pesante
o stanco tornava nella cupa spelonca.
Sporge nel mare, in forma di cuneo, un alto
acuto colle che l'acqua bagna ai lati.
E qui sale il feroce Ciclope e si ferma
sulla vetta; e il gregge lanoso lo segue
senza guida. E lasciato il tronco di pino
(era il suo bastone, e poteva essere un'antenna),
e presa la zampogna a cento piccole canne
udirono sui monti e le acque arie pastorali.
Io, nascosta da una rupe, avvinta ad Aci,
queste parole, ricordo, udii da lontano:
"O Galatea, tu sei bianca più della foglia
di neve del ligustro, piú fiorente dei prati, snella
più dell'ontano, splendente più del cristallo, più lasciva
del tenero capretto, più liscia delle conchiglie
levigate dal moto assiduo del mare, più cara
del sole d'inverno e dell'ombra d'estate,
più eccellente dei pomi, più viva agli occhi
dell'alto platano, più nitida del ghiaccio,
più dolce dell'uva matura, morbida più delle piume
del cigno e del latte rappreso, e, se tu non mi fuggi,
magnifica più dell'orto irrigato. Tu, Galatea,
sei più selvatica dei tori non domati, più dura
antica quercia, più volubile delle onde,
flessibile più dei ramoscelli del salice
e della vitalba, più ferma di questi scogli,
più violenta d'un fiume, più superba del pavone,
più impetuosa del fuoco, più pungente delle spine,
più tremenda d'un'orsa che ha i piccoli nati,
piú sorda del mare, più furiosa d'una serpe pestata,
e, questo almeno a te potessi togliere,
tu fuggi non solo più del cervo inseguito
dai secchi latrati, ma più del vento e dell'aria leggera.
Ti pentiresti, conoscendomi, d'avermi fuggito:
che rimpianto allora del tempo perduto, e che ansia
di tenermi! Mia è una parte del monte,
mie numerose spelonche scavate nella pietra viva,
dove non soffri il sole nel mezzo dell'estate,
né l'inverno. Là sono frutti che curvano i rami,
e nei lunghi filari pende l'uva simile all'oro
e quella purpure a: l'una e l'altra io serbo per te.
Tu coglierai con le tue mani le tenere fragole
nate all'ombra delle Belve, e le còrníole autunnali
e le prugne: non solo quelle livide per il succo viola,
ma anche quelle più buone, colore della cera vergine.
Se mi vorrai come sposo avrai sempre castagne
e mele selvatiche, e ogni albero per te darà il suo frutto.
Tutte le pecore che vedi sono mie: e molte vagano per le valli,
molte per il bosco, molte sono chiuse negli antri;
né, se lo chiedi, saprei il loro numero.
i poveri contano le pecore. Se ne dicessi le lodi,
non mi crederesti: tu stessa potrai vedere
come camminano a stento con le poppe gonfie
tra le gambe. Negli ovili stanno i teneri figli
degli agnelli, al riparo dal freddo, e i capretti
d'uguale età. Ho sempre latte fresco: parte
lo tengo per bere, parte lo faccio indurire
con caglio disciolto. Non avrai solo facili svaghi
e doni comuni, come daini, lepri, capre, o due colombe
o un nido d'uccelli tolto dalla cima d'un albero.
lo trovato sui monti due gemelli d'un'orsa
ho possono giocare con te, e tanto gli orsacchiotti
sono simili tra loro che appena potresti distinguerli;
quando li trovai, io dissi: "Li terrò per la mia donna.
Solleva, dunque, il capo splendente dall'onde celesti,
vieni, o Galatea, e accogli i miei doni.
Certo mi conosco, e poco fa io vidi la mia immagine
nell'acqua limpida, e mi piacque il mio aspetto.
guarda come son grande. Nemmeno Giove, nel cielo
(voi dite sempre che là regni non so quale Giove)
ha un corpo maggiore del mio; una densa chioma
scende sulla mia fronte scura, e fa ombra alle spalle
come un bosco. Ma non devi credere orrido il mio corpo
perché ispido di peli. brutto è l'albero privo di fronde,
brutto il cavallo senza il velo d'una bionda criniera
sul collo; gli uccelli sono coperti di piume,
la lana adorna le pecore, la barba e i peli ruvidi
fanno bello il corpo dell'uomo. lo ho un solo occhio
in mezzo alla fronte, ma simile a un ampio scudo.
Che dico? Non vede il sole dal cielo immenso
tutte le cose della terra? Ed anche il sole
ha un solo occhio. Mio padre, poi, è il re del mare:
e sarà padre del tuo sposo. Solo abbi pietà di me
e accogli le preghiere di chi ti supplica:
a te sola io cedo. lo che disprezzo Giove, il cielo
e il fulmine che tutto penetra, a te, figlia di Nèreo,
mi piego: la tua ira è più acuta del fulmine.
Sopporterei il disprezzo se tu fuggissi tutti;
ma perché mi rifiuti e porti amore ad Aci,
e preferisci Aci a Polifemo? Piace a se stesso, e sia;
ma che piaccia a te pure, questo non vorrei,
Galatea. Ma se lo prendo, sentirà quale forza
è chiusa nel mio corpo. Vive gli strapperò le viscere,
e le membra a brani spargerò per i campi
e per il tuo mare (così Aci si unisca a te).
Ardo, ma più ribolle il sangue per l'offesa,
e mi pare d'avere l'Etna nel petto
con le sue forze; e tu, Galatea, non ti commuovi?"
E dopo questo vano lamento (io vedevo ogni cosa)
il Ciclope vi alza, e come toro furioso
che perduta la giovenea non può stare fermo
e va per le selve e i monti che conosce,
quando mi scorse con Aci, gridò: "Vi vedo,
ma questo è l'ultimo abbraccio d'amore."
Ed era la sua voce quella d'un Ciclope
preso dall'ira; e l'Etna tremò a quell'urlo.
Allora, spaurita, m'immersi nel mare vicino,
e in fuga volse le spalle il giovane Aci, gridando:
aiuto, Galatea, ti prego, aiuto, o padre, o madre,
nel vostro regno accogliete il figlio prossimo alla morte."
E il Ciclope l'insegue, e staccato un pezzo di monte
lo lancia sul fuggiasco. Solo un estremo
della rupe lo colse, ma fu per lui la morte.
e perché Aci riprendesse la forza dell'avo,
feci quello che potevo ottenere dal fato.
Dalla rupe scorreva sangue vivo, ma, ecco, quel rosso
comincia a svanire, come colore di fiume
che torbido di pioggia schiarisce a poco a poco.
Poi la pietra si spacca, e dalle crepe escono tenere
canne, e il cavo più profondo risuona d'acque in moto.
E d'improvviso esce di là, fino alla cintola
(o mirabile cosa), un giovane con le corna
che spuntano appena cinte di molli canne.
E somigliava ad Aci, ma più alto e col viso ceruleo.
Ma anche cosi, mutato in fiume, Aci rimase com'era,
e ora il fiume ha il nome ch'era una volta di Aci. »

      

 

 

Otra versión de la leyenda indica que Polifemo era el 'novio' oficial de Galatea y que fue Aci a romper la armonia entre los dos y por eso, enojado el gigante, intentó matar al joven y éste para evitarlo se transformó en río. Con Aci o sin él, parece también que Galatea mediante Polifemo engendró a Gálata, Celto e Ilirio, epónimos de lo pueblos gálatas, celtas e ilirios. ¿Y lo de Ulises? Es otra historia...

El otro "Aci"

A esta historia falta otro Aci, un buque llamado Aci. En los años sesenta era una vieja carreta navegando los últimos instantes de su vida útil. Había sido construida con apuros en un astillero canadiense y hacía parte de la gran flota de transporte marítimo que sostuvo el abastecimiento entre América y Europa durante la Segunda Guerra Mundial. Era un Liberty canadiense de diez mil toneladas de carga. Ya no tenía nada de guerrero. Sus toldos de antiaéreas habían sido desmantelados, sus estructuras pintada casi siempre de rojo lo sumergido, negro y blanco el resto. Lo conduje veinte meses, para aquí y para allá. Creo que tuvo mucho que ver con mi desembarque en Argentina… Era una sencilla y hermosa palangana. Suscitaba cariño y cuidado. Era cómo darle más vida a la que todos sabíamos que no iba a tener. Un día muy próximo, con todo y menos nosotros, terminaría, enterito, como chatarra en una fundición japonesa o china. ¡Adiós! Haría parte de un buque más moderno y veloz, de una locomotora o de una radio a transistores…

ACI - Mayo 1964 Venezia Canal San Marco

Montebello Park (1)
 
CAN
 
Dom
 
6
 
1945 MONTEBELLO PARK, Park SS Co, Montreal.(Cunard White Star Ltd, Montreal)
1946 WALTON, Dingwall Shipping Co (Constantine (Canada) Ltd), Halifax, N.S.
1955 ACI, Sicilarma Soc di Nav per Azioni, Palermo.
1965 Scrapped at Vado Ligure

El nombre original estaba escrito en su campana y en una gran placa de bronce en la sala de maquinas: Montebello Park. Había sido entregado en la postrimería de la guerra por los "West Coast Shipbuilders Ltd., Vancouver, BC. el 31 de enero de 1945 y administrado por la Cunard White Star Ltd., Montreal (la misma y dueña del Titanic). En el '46 pasó a llamarse Walton y en el '55 Aci. En el '66 fue desguazado en España. Evidentemente mi pronóstico fue bastante errado sobre el lugar final, pero espero que los españoles no lo hayan convertido en chorizos... Sin embargo el cuadro de arriba señala una fecha y  lugar distinto, cosa que pongo en duda, porque hasta final del 1965 yo estaba a bordo del Aci.

 

ACI

El buque "Aci" fondeado en el Puerto Mar del Plata, el 20 de septiembre de 1964.

 

   

    

Liberty Dino y Pasqualino en NJ July 1962  New Uork Hudson River con el Queen Elizabeth de fondo  Pasqualino al fondo Queen Elizabeth  Queem Elizabeth entrando a Hong Konkg

 

Pasqualino Marchese, Mar del Plata, 5 - 5 - 2005

 

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Última modificación: 19 de abril de 2024